Uno dei problemi più difficili e complicati delle malattie rare è quello della diagnosi, un vero e proprio percorso a ostacoli che genera una profonda incertezza nei medici e nei pazienti. Una nuova speranza è riposta nell’intelligenza artificiale: al Centro per le malattie non diagnosticate e rare (ZusE, a Marburg, in Germania), viene utilizzato un super computer per accelerare il processo diagnostico e terapeutico di situazioni difficili.
Watson (dal nome del fondatore della Ibm, Thomas J. Watson) è un sistema per il cognitive computing: non solo elabora una grande quantità di dati ma è in grado di imparare dall’esperienza. Nel 2011 è stato messo alla prova con la partecipazione a Jeopardy, il più popolare quiz show americano dove vince chi risponde esattamente alle domande nel minor tempo possibile.
Nell’unico scontro uomo-macchina della storia dello show, Watson ha sconfitto Brad Rutter, il campione che ha vinto più denaro partecipando a Jeopardy, e Ken Jennings, detentore del record di permanenza nello show. Watson ha surclassato i suoi avversari umani sia per la rapidità delle prenotazioni sia per l’esattezza delle risposte. Oltre alla sua capacità di ascoltare e interpretare le domande e a una straordinaria potenza di calcolo, Watson ha accesso a duecento milioni di pagine di enciclopedie, articoli, letteratura, esiti di ricerche, ma anche agli articoli presenti sui blog online e addirittura ai tweet dei social network. Questo bagaglio di conoscenza è custodito in 90 server, con 2880 thread di processori e 16 terabyte di memoria Ram: analizza ed elabora circa 500 GB al secondo.
La partecipazione a Jeopardy era un test per mettere alla prova la sua intelligenza artificiale e la sua capacità di interpretare il linguaggio umano. Superata brillantemente questa sfida, Watson si è “iscritto” alla Facoltà di Medicina del Maryland e alla Columbia University e si è specializzato in medicina diagnostica per raccogliere informazioni sulla salute dei pazienti e formulare una diagnosi “esatta” in tempi brevi: confronta in tempo reale quel che vede con i database che “conosce”, capisce immediatamente se si trova davanti a un problema e quale è stato il trattamento più efficace per rimuoverlo. È in grado di sentire e di capire le domande dei pazienti, di elaborarle e di fornire risposte pertinenti e contestualizzate. Grazie ad alcuni algoritmi può anche vedere, può distinguere cioè i margini delle cose, la differenza fra due oggetti, un singolo tratto in un disegno, oppure quella fra due tessuti in una radiografia. La tecnologia basata sul deep learning gli consente insomma di guardare il mondo, trarre un senso dalle cose e apprendere dall’esperienza imparando dai propri successi tanto quanto dai fallimenti.
Il centro di Marburg ha una lista d’attesa di seimila pazienti, ciascuno con una documentazione clinica raccolta in mesi o anni. Due medici dell’ospedale, Jürgen Schäfer e Tobias Müller, hanno lavorato in collaborazione con gli ingegneri di Ibm per programmare Watson con l’analisi dei dati clinici dei pazienti con una malattia rara senza diagnosi che avevano compilato un lungo e dettagliato questionario che spaziava dalle abitudini dell’infanzia all’ambiente in cui vivono, fino ai sintomi più recenti. Watson confronta i dati forniti con quelli presenti nei suoi database ed elabora una lista di cause, in ordine di probabilità: in cima alla lista risulta sempre la diagnosi che anche i suoi colleghi medici umani proponevano. È stato quindi “assunto” dal Centro come assistente dei medici nelle diagnosi.
Ora, il fatto che un computer possa trattare i dati statistici e fare predizioni probabilistiche meglio di un essere umano è noto da quando l’Ibm Deep Blue ha battuto il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov . Ma gli scacchi sono un gioco a regole definite mentre la diagnostica medica è un problema privo di regole esatte e in fondo di ampiezza non limitata, tanto da sembrare al di là delle possibilità di una macchina. Watson è un sistema di cognitive computing, diverso da tutti gli elaboratori, perché non è in grado soltanto di applicare principi matematici o di seguire regole di logica, ma è capace di uscire dalle mere e rigide applicazioni scientifiche e di ragionare. Watson è il computer che sa pensare, che sa capire dati e problemi posti, ma anche gestirli ed elaborarli per fornire previsioni e soluzioni a cui l’uomo difficilmente potrebbe arrivare da solo.
Watson pensa seguendo passaggi molto simili a quelli adottati dal ragionamento umano, attraverso 4 fasi:
– Osservazione dell’evidenza dei fatti, analizzando la domanda posta;
– Interpretazione ed identificazione di relazioni al fine di generare ipotesi;
– Valutazione delle ipotesi con relativa distinzione tra quelle giuste e quelle sbagliate;
– Scelta dell’ipotesi migliore, che porta alla soluzione.
A differenza di un normale computer, Watson è in grado di elaborare e comprendere dati non strutturati, ovvero l’80% dei dati generati ogni giorno. Ciò vuol dire che è possibile dare a Watson non soltanto informazioni già organizzate secondo schemi di relazioni, ma anche dati non ancora catalogati e associati tra loro.
Il fatto che Watson sappia “pensare” ci pone di fronte al dilemma logico-filosofico per cui una macchina capace di apprendere finisce per essere capace di ragionare e di decidere, penetrando in un ambito di competenze che si ritengono di esclusiva proprietà degli esseri umani. Ciò significa, tra l’altro, che un giorno la macchina potrà sostituire gli esseri umani nei lavori di concetto e non solo in quelli ad esecuzione meccanica.
E allora: Watson potrà sostituire il medico? La risposta a tale quesito, a tratti apocalittico, dipende da quale si ritiene essere il ruolo del medico: se il suo compito è fare diagnosi, prognosi e stabilire terapie Watson è migliore del medico diagnosta e potrà sostituirlo. Se invece il ruolo del medico è la cura del paziente tramite l’ascolto empatico della sua storia di malattia (Narrative Based Medicine) Watson resterà eternamente un assistente medico. “Il dato rilevante alla diagnosi e la condizione clinica del paziente – spiega Roberto Lala -, oltre a essere rilevata nell’incontro diretto del medico con il paziente, è assai più efficace se condotto da un essere umano rispetto a una macchina nella misura in cui si avvale di rilevazioni sensoriali (ad esempio, colorito del paziente, aspetto florido o meno, movenze, pause nel discorso ecc.) e di vibrazioni empatiche, tutte cose che la macchina per sua natura non può avere non essendo fatta di sangue, carne e…cuore”. Assai difficilmente il paziente racconterebbe a Watson la sua anamnesi come la racconterebbe al suo medico di fiducia.
Watson è dunque tecnicamente efficace ma clinicamente disumanizzante. Torna allora in auge il quesito di quel vecchio medico scientista che domandava: “è migliore il medico che guarisce senza parlare e ascoltare il paziente, oppure quello che gli tiene la mano mentre il paziente sta morendo?”.
Una pseudo dicotomia che ripropone la grande difficoltà di trovare l’equilibrio tra la Tecnica e le Humanities, come già la medicina ippocratica insegnava, per non correre il rischio di una medicina scientificamente preparatissima e tecnicamente potentissima ma che disperde la sua stessa missione e ragion d’essere, ovvero la cura del paziente inteso come un intero sistema bio-psico-sociale e non come un mero corpo malato.
Autore. Luca Nave, Segretario Generale della Federazione Malattie Rare Infantili, referente delle Associazioni dei pazienti all’interno della Rete Interregionale per le malattie rare del Piemonte e Valle D’Aosta. Docente di Bioetica Clinica al Master in Malattie Rare dell’Università degli Studi di Torino e al Master in Cure Palliative dell’Università degli Studi di Cagliari. Presidente di Pragma. Società Professionisti Pratiche Filosofiche. Mail: segreteria@malattie-rare.org